l
principe azzurro
di Maria Mastrocola Dulbecco
E’ uno dei temi
del corso unitre che ho frequentato appena arrivata a Rivoli prima
che mi invitassero a tenere il mio. Circa dieci anni addietro.
Ho
rimandato di qualche settimana l’argomento poiché ritenevo di non
avere nulla da scrivere a riguardo.
Ma uno di quei
famosi cassettini della memoria si è prepotentemente aperto e mi ha
ricordato che non solo un principe azzurro lo avevo sognato, ma era
esistito nella realtà dei miei undici o dodici anni.
Mi rivedo ancora in
quella terza navata a sinistra della chiesa parrocchiale dove la
nostra “scuola cantorum”, della quale facevo parte, si riuniva
attorno all’armonium per cantare gli inni del caso e negli
intervalli di canto il mio sguardo era rivolto verso la terza navata,
in fondo a destra, da dove due occhi mi guardavano al di sopra delle
teste che riempivano la chiesa.
Tutte le domeniche
i miei sguardi si incontravano con i suoi e quanto soffrivo se
qualche volta non li trovavo.
Bello, il vero
principe dei miei sogni.
Quando uscivo dalla
chiesa, con la mia amica del cuore, lo trovavo all’uscita
e ancora lo incontravo nelle passeggiate per il paese. Ma neppure
alla mia amica permettevo si avvedesse di quegli sguardi, né con lei
ne avrei mai parlato, avvicinarsi non era neppure pensabile, il paese
intero avrebbe mormorato e ne sarei morta di vergogna.
Quegli sguardi
innocenti potevano provocare uno scandalo.
Un giorno, uscendo
dalla chiesa per una funzione pomeridiana, da una casa vicina,
sentimmo arrivare della musica e una ragazzina come noi ci invitò ad
entrare. Io e la mia amica, quasi furtivamente, ci infilammo in
quella porta ed in una stanza con le finestre accuratamente chiuse
verso la strada, vi erano persone che ballavano.
Il mio principe era
tra loro e il mio cuore sussultò dalla gioia quando mi si avvicinò
per invitarmi a ballare.
Il primo e forse
ultimo ballo della mia vita.
Non sapevo ballare
e glielo dissi: non preoccuparti, ti insegno io e felice tra le sue
braccia ascoltavo il suo dirmi due passi a destra, un passo a
sinistra, forse era così che diceva, ma tutto quello che ancora
ricordo è che si trattava di un tango e che volavo tra le sue
braccia.
Avevo i capelli
lunghi con la riga da una parte così che per metà essi scendevano
sul viso coprendomi in parte la fronte e lui per farmi un complimento
mi disse: sei pettinata alla Veronica Lake. Non vi erano sale
cinematografiche in paese ma sapevo che la nominata era un’attrice.
Era la prima ed
unica volta che l’ho visto da vicino e il mio principe aveva i
capelli ricci e neri (non era biondo come nella tradizione) ma aveva
gli occhi chiari.
Avrei voluto che
quel pomeriggio non finisse mai, ma come nelle fiabe, prima
dell’imbrunire, abbandonammo frettolosamente quella casa per
tornare a casa in tempo da non perdere la fiducia che i nostri
genitori ci accordavano.
Neppure in quel
caso confidai il mio segreto all’amica, tornai a casa a
fantasticare e mi ricordai un episodio accaduto in seconda elementare
quando lo stesso ragazzino fu punito dall’insegnante per aver
lanciato un biglietto sul mio banco e denunciato dalla bimba che mi
sedeva accanto.
Sognavo di
incontrarlo ancora e questo avveniva spesso essendo il paese piccolo,
ma il nostro era sempre un incrociarsi di sguardi innocenti.
Sembra che questi
sguardi siano stati notati da altri che non li hanno giudicati tanto
innocenti se un giorno la mia amica del cuore addusse un pretesto per
non uscire insieme.
Siccome anche lei
pativa questa nostra separazione, sedute sullo scalino dietro la casa
di Lella, all’ombra della nostra chiesa, mi confidò:
“Mammà non vuole che esca con te perché ha saputo che tu
vedi…fece il nome del ragazzino.
Non era vero ma
quel gioco di sguardi era diventato uno scandalo di dominio pubblico.
Mi
cadde il mondo addosso, la pregai di riferire a sua madre che non era
vero niente e che mai ne avrebbe fatto parola con mia madre poiché
me ne sarei vergognata. Poi lei che era sempre con me, sapeva che
l’unica volta che ci eravamo avvicinati era stato a quel
ballo in cui c’era anche lei e del quale nessuna di noi poteva
riferire.
Soffrii la mia
prima pena d’amore, ma il terrore di essere giudicata male mi
impedì di continuare a ricambiare quegli sguardi ed evitare di
girarmi in chiesa verso quella navata in fondo.
Passati pochi anni,
il mio principe si trasferì a Roma per i suoi studi, io a Torino
così, le nostre strade presero direzioni diverse e non ci
incontrammo mai più.
Aprendo oggi quel
cassettino ho provato una tenerezza infinita per quella innocente
prima inconsapevole pena d’amore.
Maria
Mastrocola Dulbecco